Augusto Pieroni

04/02/1999
Loris Cecchini – Stereoreale in L. Pratesi ed., Loris Cecchini (cat.), Ist. Italiano di Cultura, Köln, 1999
Ci sono parole che dette tutte d'un fiato danno un certo piacere, come d'aver risolto qualche mistero della vita, come d' essersi dissetati dopo giorni, come d'aver nominato l'innominabile o toccato la cosa-in-sé. Così dire <>, un termine inventato dal pensatore francese Paul Virilio per indicare come la nostra percezione odierna non possa rinunciare a ricomprendere inscindibilmente un canale di origine naturale e un canale di origine mediale. Come la stereofonia o la visione tridimensionale basano la sensazione di completezza sulla divisione fra canale destro e sinistro, sottilmente sfalsati. Questo termine sta qui a indicare la presenza contemporanea di opposti piani di realtà coessenzialmente intrecciati in un' esistenza che è e resta l'unica disponibile. In un' arte che ne é la concettualizzazione formalizzata.
Stereoreale: pronunciare questa parola senza pause sembra comunicare qualcosa di più. Di oltre. E questo perché in una sola emissione di pneuma trovano la loro sintesi una contraddizione o una dialettica vitale. Un po' come certe partiture di Steve Reich in cui i fiati eseguono una singola nota tenuta per quanto dura l' espirazione dell' esecutore. La dialettica è quella fra naturale e artificiale: un eterno dissidio logico e un'eterna alleanza dinamica. Cos'è un Bonsai? Cos'é un giardino all'inglese? Cosa un'opera di Beuys con la cera o il grasso? Assetti artificiali di processi naturali.
Risultati altamente culturalizzati - densi cioè di rimandi simbolici - ma basati su
meccaniche naturali.
Nei lavori di Loris Cecchini (Milano 1969) questa dialettica appare nella sua forma più paradossale perché invece di presentarsi sotto forma biomorfa, assume immediatamente i panni di natura seconda, di codice, di convenzione linguistica e di formalizzazione artistica. Di immagine bidimensionale che irrinunciabilmente è il segno della natura segnica dell'arte. Nulla in natura si dà solo sul piano (e di recente nemmeno nel lavoro di Cecchini, preso com'è fra calchi in morbide resine sintetiche e computer-animations in 3D).
Ma la fotografia, già: la scrittura di luce. Come tale la fotografia è stato per lungo tempo considerato il processo più naturale fra quelli segnici. Negli ultimi anni di questo secolo essa ha però subito un' estensione di campo. E' infatti entrato a far parte della costellazione fotografica tutto un insieme di pratiche discorsive, di giochi linguistici, che nulla hanno a che fare con la tradizionale autodefinizione settoriale.
Da tempo, infatti, i critici parlano di post-fotografia, ma questa tensione speciale che un tempo abitava i bordi del fenomeno (penso a Richard Hamilton che pionieristicamente usava il Paint-Box per i suoi fotoritocchi in epoca tardo-Pop) oggi è il cuore della sua identità. Pensiamo alla perfetta simulazione di naturalità con la quale il canadese Jeff Wall tratta in elettronico le sue fotografie.
E le ricerche come quella di Cecchini sono vere e proprie fototensioni (adotto il neologismo che ho messo a titolo di un recente libro) che uniscono in modo problematico opposti piani di realtà intersecando in una dissolvenza multipla diversi mondi paralleli, iconografie (posso solo accennare) di perturbante coerenza. Oggetti finti: giocattoli, modellini, scenografie estratte dal mondo del consumo, sono ripresi da un close-up che, stando alla norma della fotografia, dovrebbe garantire della loro oggettività, della loro quasi-naturalità. Ad abitare questi scenari sono persone ancor più reali, vive, vere e carnali; colte spesso nella casualità delle loro movenze, riprese come in una paradossale straight photography.
La stereorealtà è il territorio di coabitazione di queste due porzioni di mondo; due messe a fuoco distinte di un solo bacino di immagini, un nastro di Möbius nel quale per un semplice meccanismo logico i piani si raddoppiano. Ecco dove la realtà naturale e quella massmediale, già doppiamente presenti nelle singole parti, si elevano a potenza in un risultato che in fondo è naturalmente una stampa fotografica: una scrittura di luce. Dal collage al pastiche le operatività soffrono di una strana forma di eterno ritorno, ma il senso dell' opera visiva - immateriale e perciò polidimensionale - non sottostà del tutto alle regole del tempo. Nessuno dimentica perciò che il fotomontaggio è un retaggio protomoderno. Il lavoro di Cecchini non finge di ignorarlo, anzi si sovraccarica delle forti e vincolanti risonanze rinascimentali, barocche, costruttiviste, surrealiste e postmoderne. Solo e semplicemente stacca un nuovo frutto maturo da una pianta antica - e il frutto non cade mai troppo distante dall'albero, si sa.