Gianfranco Maraniello
13/10/2001
BBBreathless
BBBreathless: un balbettio. O un boccheggiare nel tentativo di ripetere una consonante che “sboccia” faticosamente e – come accade all’infante, ossia a colui che è privo (o privato) di parola – sembra formare delle bollicine tra quelle labbra quasi serrate dalla mancanza d’aria. Le frequenze del respiro sono tali da suggerire il ritmo di un’agonia. La cella in gomma si dilata, si gonfia minacciosamente e poi cede al proprio sforzo, come spirando.
Di fronte non troviamo un oggetto, ma un muto mistero claustrofobico per chi ne resta fuori. Una stanza grigia, da aggirare. Una stanza dentro una stanza. Una mise en abîme angosciante per chi cerca un pertugio, una via di scampo in quelle pareti false, eppure vere perché vive, animate da un flatus meccanico, da quel freddo motore che sembra astutamente nutrirsi dello stesso respiro rubato allo spettatore capace di coglierne la tragedia. La macchina respira. Noi, affranti, no. Il nostro silenzio abbandona il condannato e conferma il trionfo dell’algida follia razionale. L’ingiustizia distributiva del dare morte ci lascia testimoni impotenti di una fredda ingegneria. L’opera è tanto semplice quanto raffinata, proprio come i rituali delle esecuzioni capitali: una stanza; e poi una sedia, di quelle fornite di lacci e componenti elettriche; oppure del gas; o un’iniezione; e quel macabro inventario di cinici accorgimenti affinché “tutto vada bene” nel momento estremo.
Loris Cecchini, però, non concede nulla allo spettacolo voyeuristico. Non c'è cruenza esibita, né la morbosa minuzia di dettagli offerta da parecchi siti web. Presenta il cadenzato ritmo dell’avviarsi a morire attraverso un congegno che mima la lentezza e, insieme, l’inesorabile istantaneità di una violenza che ha l’aggravante dell’arbitrio, della pretesa di giustizia. Decisione che resta revocabile, aperta a un possibile ripensamento o a clemenza, ma che, in ultima istanza, è lasciata agire. Quindi: decisione senza grazia e, ineluttabilmente, colpevole; anche se rimossa dalla mascherata dello spazio asettico di queste nuove e sofisticate gogne.
Ed è tale perversa neutralità dello spazio che Cecchini rende drammatica e accessibile al tempo stesso. Le forme apparentemente semplici delle sue opere sono il risultato di un laborioso sistema di calchi e ricomposizioni, di giochi in negativo che sembrano misurare, comprendere e poi alienare gli oggetti dalla propria materia originaria. Le cose si duplicano in un grigio mondo di gomma, un paesaggio invertebrato, cedevole, destrutturato e ridotto a pura superficie uniforme. Sembrano fossili molli, quelle opere che serbano il senso di impotenza, caducità, arrendevolezza del nostro quotidiano. Gettano stupore sull’inavvertito, sulla mancanza di “spessore”, sull’incontrastato essere tradotti a terra, schiacciati dall’invisibile segreto gravitazionale.
Ci si sente soli di fronte a queste sculture impraticabili, come se si fosse uno di quei personaggi che Cecchini immerge in fotomontaggi privi di contenuto narrativo. Soggetti persi tra detriti e polveri, ambienti che non lasciano indizio di azione e di tempo. Persone incapaci di dialogare, spesso addormentate, sprofondate nel sonno. E non c’è maggiore solitudine del sognare, del calare le palpebre e chiudere lo sguardo a ogni estraneità. Nei sogni si è sognati, si è sempre autisticamente attori della propria vita onirica. Blindati in noi stessi, la nostra solitudine si rispecchia in quella del condannato all’interno della propria cella. La reclusione e il dolore in quello spazio scenico offerto alla platea dell’umanità: altro materiale per la commedia umana o, forse, per la sua tragedia.
Di fronte non troviamo un oggetto, ma un muto mistero claustrofobico per chi ne resta fuori. Una stanza grigia, da aggirare. Una stanza dentro una stanza. Una mise en abîme angosciante per chi cerca un pertugio, una via di scampo in quelle pareti false, eppure vere perché vive, animate da un flatus meccanico, da quel freddo motore che sembra astutamente nutrirsi dello stesso respiro rubato allo spettatore capace di coglierne la tragedia. La macchina respira. Noi, affranti, no. Il nostro silenzio abbandona il condannato e conferma il trionfo dell’algida follia razionale. L’ingiustizia distributiva del dare morte ci lascia testimoni impotenti di una fredda ingegneria. L’opera è tanto semplice quanto raffinata, proprio come i rituali delle esecuzioni capitali: una stanza; e poi una sedia, di quelle fornite di lacci e componenti elettriche; oppure del gas; o un’iniezione; e quel macabro inventario di cinici accorgimenti affinché “tutto vada bene” nel momento estremo.
Loris Cecchini, però, non concede nulla allo spettacolo voyeuristico. Non c'è cruenza esibita, né la morbosa minuzia di dettagli offerta da parecchi siti web. Presenta il cadenzato ritmo dell’avviarsi a morire attraverso un congegno che mima la lentezza e, insieme, l’inesorabile istantaneità di una violenza che ha l’aggravante dell’arbitrio, della pretesa di giustizia. Decisione che resta revocabile, aperta a un possibile ripensamento o a clemenza, ma che, in ultima istanza, è lasciata agire. Quindi: decisione senza grazia e, ineluttabilmente, colpevole; anche se rimossa dalla mascherata dello spazio asettico di queste nuove e sofisticate gogne.
Ed è tale perversa neutralità dello spazio che Cecchini rende drammatica e accessibile al tempo stesso. Le forme apparentemente semplici delle sue opere sono il risultato di un laborioso sistema di calchi e ricomposizioni, di giochi in negativo che sembrano misurare, comprendere e poi alienare gli oggetti dalla propria materia originaria. Le cose si duplicano in un grigio mondo di gomma, un paesaggio invertebrato, cedevole, destrutturato e ridotto a pura superficie uniforme. Sembrano fossili molli, quelle opere che serbano il senso di impotenza, caducità, arrendevolezza del nostro quotidiano. Gettano stupore sull’inavvertito, sulla mancanza di “spessore”, sull’incontrastato essere tradotti a terra, schiacciati dall’invisibile segreto gravitazionale.
Ci si sente soli di fronte a queste sculture impraticabili, come se si fosse uno di quei personaggi che Cecchini immerge in fotomontaggi privi di contenuto narrativo. Soggetti persi tra detriti e polveri, ambienti che non lasciano indizio di azione e di tempo. Persone incapaci di dialogare, spesso addormentate, sprofondate nel sonno. E non c’è maggiore solitudine del sognare, del calare le palpebre e chiudere lo sguardo a ogni estraneità. Nei sogni si è sognati, si è sempre autisticamente attori della propria vita onirica. Blindati in noi stessi, la nostra solitudine si rispecchia in quella del condannato all’interno della propria cella. La reclusione e il dolore in quello spazio scenico offerto alla platea dell’umanità: altro materiale per la commedia umana o, forse, per la sua tragedia.