Lorenzo Fiorucci
15/05/2024
Loris Cecchini Waterbones. La scultura come sistema, Spoleto 2022
«Tutti i corpi non esistono solo nello spazio,
ma anche nel tempo.
Essi perdurano e possono apparire
in ogni momento della loro durata
e in combinazioni differenti.
Ognuna di queste apparizioni
e combinazioni momentanee
è il frutto di una precedente,
e può essere la causa
di una successiva,
e perciò, per così dire,
il centro di un’azione.»
Gotthold Ephraim Lessing 1766
Non sono poi molti gli scultori come Loris Cecchini che sono riusciti, in questa apertura di secolo, a esprimere una proposta concreta di reale aggiornamento e innovativo sguardo visionario rispetto alla scultura contemporanea. Infatti, se volessimo riavvolgere per un momento l’articolato gomitolo della scultura, che dal novecento si dipana fino ai giorni nostri, ci si accorgerà come la sua ricerca recepisce le principali soluzioni sviluppate da artisti che si sono posti davanti a problemi formali e strutturali della scultura. Abbandonando l’idea di simulacro figurativo e sposando l’idea modernista, se non addirittura progressista, alcuni protagonisti del secolo scorso hanno fatto compiere il reale salto in avanti della scultura, altrimenti avviata verso un triste epilogo di disciplina dalla “lingua morta”. Se infatti, come ci ricordava Werner Hofmann in un noto libretto di fine anni cinquanta, la scultura del XIX secolo è concepita per rispondere al «bisogno iconografico per le masse», nel XX secolo questa ha ampliato la propria ricerca in due filoni: quello domestico e quello ambientale, offrendo capacità di rinnovamento soprattutto sulla scelta dei materiali e sulla tendenza all’abbandono delle volumetrie, in favore di una ramificazione strutturale. Circoscrivendo di molto il campo a poche categorie non rigide e solo sommariamente indicative, potremmo individuare i prodromi di questa nuova tendenza negli artisti del primo novecento. Forse l’iniziatore è proprio Tatlin, con il Progetto per la III Internazionale (1919-1920), dove l’idea di monumento rimane confinato nel titolo, mentre l’opera apre a una dimensione inedita in cui forma e struttura coincidono consentendo una liberazione di linee nello spazio. Una scultura già quasi unicamente strutturale, tanto da poterla inquadrare come primo esempio di scultura di linea, seguita dalle opere di poco successive di Walter Linck. Mentre per certi aspetti la scultura al neon di Lucio Fontana, della fine degli anni quaranta, esprime una purezza lineare non più costruita, ma disegnata nello spazio tanto da diventare ambiente. Contestualmente Alexander Calder approfondisce l’idea della scultura in movimento (Mobile), che trova anche in Man Ray (Ostruzione), un parallelo iniziatico, mentre in Italia forse l’unico referente coevo di questa tendenza è Edgardo Mannucci (Idea), seppure adottando una grammatica materica tipica dell’Informale. In due tempi, prima negli anni trenta, e poi nei sessanta, è Fausto Melotti il rappresentante italiano di una scultura astratta ricondotta all’essenzialità della linea, tendenza sviluppata successivamente anche da un artista come Antony Caro, che declina la scultura in forme più compositive, quasi a ricalcare i confini di piani paesaggistici della pittura, riuscendo in questo modo a fondere linearità e organicità. Risalendo velocemente fino ad oggi, alcuni esempi di continuità di scultura di linea in cui immagine e struttura coincidono, possono trovarsi in Italia negli sviluppi rettilinei elementari di Valdi Spagnulo o in quelli fluidi di Eduard Habicher.
Nel dopoguerra vanno intensificandosi ancora nuove modalità che reinventano ulteriormente la scultura rompendo il rigore formale di tradizione purovisibilista, e spostando ulteriormente l’asticella in avanti verso nuove possibilità espressive. È questo il caso di tutta quella scultura esistenziale che ha origine con l’Informale e che trova nell’assemblaggio, in genere del rifiuto di lavorazione, l’elemento dirimente declinato da scultori come: David Smith, Mark di Suvero ed altri artisti celebrati in una tempestiva mostra al Moma di New York nel 1962 dal titolo The art of Assemblage. In Italia gli artisti riconducibili a questa tendenza sono: Ettore Colla, ancora Edgardo Mannucci, Nino Franchina, Franco Garelli, Pietro Consagra e tanti altri che hanno rinnovato la grammatica espressiva e gli strumenti operativi del fare scultura, passando dalla fusione metallica alla saldatura. Tra questi si possono rintracciare anche i Ferri di Alberto Burri, annoverati come sculture già nel 1964, in un’importante mostra alla Galleria Civica di Torino. In una modalità di assemblaggio costruttivo, seppure con finalità maggiormente concentrate in una narrazione figurale evocativa, sono riconducibili anche alcune sculture di Pino Pascali derivanti dal ciclo delle Armi (1965 circa), contemporaneamente l’italo-francese Berto Lardera, procede in una costruzione metallica di sagome astratte pur evocando marginalità figurali, quasi ombre. La ripresa di una ricerca verso la scultura di assemblaggio, dominante fino alla fine degli anni sessanta, è stata riportata in auge recentemente dalle opere di Carol Bove, esposte alla Biennale di Venezia del 2019. In alcuni casi anche le sculture metalliche degli anni settanta di Amilcare Rambelli, rientrano in una dimensione di costruzione anche se l’elemento organico è preminente nell’artista milanese, unito alla componente meccanica che rende le sue sculture un ibrido, in cui si consuma l’eterno confronto tra natura e macchina. Un tema, quest’ultimo, che già affascinò i Futuristi e che riaffiora nella scultura contemporanea del nuovo secolo nelle meccaniche di Arcangelo Sassolino, ma anche nelle installazioni dei cinesi Sun Yuan e Peng Yu presenti anche loro all’ultima Biennale veneziana.
Ci sono ancora altre due tendenze funzionali al nostro discorso: la prima è quella organicista, in cui spicca il nome di Henry Moore e tra gli altri quelli di Labo, Olga Jeveric, Quinto Ghermandi, Alberto Viani e il già citato Rambelli. Mentre l’ultima è quella del minimalismo modulare che trova in Brancusi un prodromo, per poi fiorire dalla seconda metà degli anni sessanta, contrapponendosi alla materia calda informale, con elementi modulari freddi, in cui la scultura si espande nello spazio, secondo la lettura di Rosalind Krauss, e che trova i suoi protagonisti negli americani Donald Judd, Robert Morris, Carl Andre, Sol Lewitt, mentre in Italia questa tendenza è riconducibile essenzialmente ad un anticipatore come Francesco Lo Savio e, dalla fine degli anni sessanta, mi piace ricordare una scultrice poco nota come Nedda Guidi. L’idea di modularità seriale, in una prospettiva formale organica, è forse la tendenza che meglio descrive parte delle ultime tendenze della scultura contemporanea. Un esempio efficace in questo senso è riscontrabile nelle opere di Tara Donovan, che realizza sculture attraverso oggetti seriali d’uso comune, assemblati insieme, generando forme nebulose organiche.
Questa parziale e libera panoramica storica, di sviluppo scultoreo giocato anche tra le polarità di artificio e natura, si è resa dunque necessaria per individuare alcuni dei filoni entro i quali la ricerca ultima di Loris Cecchini sembra inserirsi, sintetizzando i processi e offrendo il proprio contributo per rinnovare i consolidati schemi del linguaggio scultoreo. Egli assorbe dalla lezione del novecento alcuni caratteri: la linearità, che diviene curva e frammentata come somma di moduli; l’assemblaggio come modalità di costruzione; il modulo come unità elementare della scultura e l’organicità come struttura formale compiuta.
L’artista, dopo aver scarnificato, disossato e reso fluida, l’oggettualità del vivere quotidiano, nelle opere degli anni novanta, recupera con i primi moduli del 2009 e poi con i Waterbones nel 2014, una dimensione strutturale in cui artificio e natura non sono più su un piano alternativo o di contrasto, ma instaurano un rapporto cooperativo dialogante. «Questo tipo di lavoro si espande e contrae in qualsiasi tipo di spazio, diventando una sorta di instant sculpture, come le modalità delle piante, degli organismi e allo stesso tempo di infiniti calcoli». Non poteva essere più chiaro Cecchini, nel fornire le direttrici di una ricerca che trova nella natura una prima fonte d’ispirazione, e nella scienza lo strumento attraverso cui declinare un proprio linguaggio estetico. I Waterbones si inseriscono concettualmente sul filone di una scultura aperta, modificabile, che assume i connotati di un’opera in espansione, lo stesso autori ricorda come: «La scultura intesa come diagramma aperto mi dà la possibilità di lavorare sull’espansione e la contrazione di una forma nello spazio». Analogie, non solo nominalmente ma anche esteticamente, emergono con l’opera di Claire Falkenstein, Strutture in espansione del 1959, in cui ramificazioni reticolari si diramano in libertà nello spazio, elaborando elementi organici.
Dal punto di vista della lettura critica si pone però il problema della definizione, in quanto non si può leggere la scultura di Cecchini solo come sintesi di linguaggi e di esperienze precedenti, sarebbe infatti anacronistico oltre che ingeneroso.
Di certo la sua opera più recente risulta un punto di confluenza entro cui esperienze passate trovano riverbero, oltre che essere perfettamente in linea con i caratteri generale di arte espressi negli ultimi decenni. In particolare, egli sposa un linguaggio adattabile ai contesti e opportuno ad ogni luogo. Tuttavia, la caratteristica più evidente della sua opera, ed in particolare delle modularità dei Waterbones, è la perdita di un centro focale. Egli dissemina di più nodi la scultura, ognuno centrale ad una sezione dell’opera, che diviene simultanea in più punti. Su questo principio apparentemente ottico, si basa in realtà l’autentica novità della sua ricerca che risiede nella visualizzazione plastica di un sistema scultoreo. Credo sia questa la definizione più efficace per circoscrivere la natura di questa ricerca. Non si può infatti più parlare di singola opera dai solidi confini o di semplice installazione ambientale o ancora costruzione modulare. Questi criteri male si sposano ad un insieme di elementi autonomi, ma connessi in un tutto organico che definisce la base dei sistemi. Waterbones è composto da agglomerati mutevoli, elementi costruibili in forme fluide attraverso unità modulari che si autosostengono l’una all’altra, senza bisogno di basi o di ancoraggi. È la scultura concepita come sistema, perfettamente autonoma, in cui i confini materiali non sono più definibili, ma labili e in continua evoluzione; dove anche l’incertezza, la titubanza del singolo elemento non è più percepibile in quanto assorbita dal tutto. Una scultura ambigua, non immediatamente decifrabile, in cui l’osservatore è legittimato a porsi il dubbio se essere d’innanzi a una rappresentazione puntuale di un microcosmo cellulare, o davanti alla metafora simbolica di un macrocosmo universale. Rappresentazione e simbolo, in genere elementi antitetici qui si fondano. Non è un caso che approcciandosi a questo tipo di scultura, molti studiosi evocano come riferimenti formali i tessuti cellulari, le reti neurali o piuttosto sciami d’api, formicai ed altro ancora oscillando con disinvoltura dal micro, al macro, dal simbolo alla rappresentazione. È in questo dubbio che si riverbera la generalità di quella che intrinsecamente è la logica dell’opera, e che ricalca la legge dei sistemi complessi, in cui l’unità, nella libertà di posizionamento nello spazio, sottostà ad un ordine formale che è determinato dall’energia complessiva dell’insieme.
In Waterbones, infatti, pur avendo più punti focali, non è mai un dettaglio a dominare la scena, quanto l’articolazione dell’insieme nello spazio, come nelle forme mutevoli degli stormi di uccelli in volo o nell’organizzazione dei vetri di spin, come ha dimostrato recentemente Giorgio Parisi.
Su questa concezione cade anche la tradizionale lettura critica dell’opera d’arte secondo criteri di equilibrio, forma, proporzione e simmetria; stravolti completamente da un sistema di elementi caotici, labirintici spesso montati in posizioni casuali e che trovano, in verità, una loro ragione nel sistema che lo regola. A tutto questo Cecchini aggiunge un concetto astratto, ma tipico dell’arte: l’armonia. Lo si coglie da una sua frase di poetica: «La scultura nel suo manifestarsi, deve avere, al di là della funzione meccanica che la determina, un carattere musicale, l’eleganza di una pianta, la leggerezza di un’idea», è questo l’ultimo tocco della ricetta artistica di Loris Cecchini. Un artista che rende tangibile ciò che solo la mente riesce a visualizzare.
ma anche nel tempo.
Essi perdurano e possono apparire
in ogni momento della loro durata
e in combinazioni differenti.
Ognuna di queste apparizioni
e combinazioni momentanee
è il frutto di una precedente,
e può essere la causa
di una successiva,
e perciò, per così dire,
il centro di un’azione.»
Gotthold Ephraim Lessing 1766
Non sono poi molti gli scultori come Loris Cecchini che sono riusciti, in questa apertura di secolo, a esprimere una proposta concreta di reale aggiornamento e innovativo sguardo visionario rispetto alla scultura contemporanea. Infatti, se volessimo riavvolgere per un momento l’articolato gomitolo della scultura, che dal novecento si dipana fino ai giorni nostri, ci si accorgerà come la sua ricerca recepisce le principali soluzioni sviluppate da artisti che si sono posti davanti a problemi formali e strutturali della scultura. Abbandonando l’idea di simulacro figurativo e sposando l’idea modernista, se non addirittura progressista, alcuni protagonisti del secolo scorso hanno fatto compiere il reale salto in avanti della scultura, altrimenti avviata verso un triste epilogo di disciplina dalla “lingua morta”. Se infatti, come ci ricordava Werner Hofmann in un noto libretto di fine anni cinquanta, la scultura del XIX secolo è concepita per rispondere al «bisogno iconografico per le masse», nel XX secolo questa ha ampliato la propria ricerca in due filoni: quello domestico e quello ambientale, offrendo capacità di rinnovamento soprattutto sulla scelta dei materiali e sulla tendenza all’abbandono delle volumetrie, in favore di una ramificazione strutturale. Circoscrivendo di molto il campo a poche categorie non rigide e solo sommariamente indicative, potremmo individuare i prodromi di questa nuova tendenza negli artisti del primo novecento. Forse l’iniziatore è proprio Tatlin, con il Progetto per la III Internazionale (1919-1920), dove l’idea di monumento rimane confinato nel titolo, mentre l’opera apre a una dimensione inedita in cui forma e struttura coincidono consentendo una liberazione di linee nello spazio. Una scultura già quasi unicamente strutturale, tanto da poterla inquadrare come primo esempio di scultura di linea, seguita dalle opere di poco successive di Walter Linck. Mentre per certi aspetti la scultura al neon di Lucio Fontana, della fine degli anni quaranta, esprime una purezza lineare non più costruita, ma disegnata nello spazio tanto da diventare ambiente. Contestualmente Alexander Calder approfondisce l’idea della scultura in movimento (Mobile), che trova anche in Man Ray (Ostruzione), un parallelo iniziatico, mentre in Italia forse l’unico referente coevo di questa tendenza è Edgardo Mannucci (Idea), seppure adottando una grammatica materica tipica dell’Informale. In due tempi, prima negli anni trenta, e poi nei sessanta, è Fausto Melotti il rappresentante italiano di una scultura astratta ricondotta all’essenzialità della linea, tendenza sviluppata successivamente anche da un artista come Antony Caro, che declina la scultura in forme più compositive, quasi a ricalcare i confini di piani paesaggistici della pittura, riuscendo in questo modo a fondere linearità e organicità. Risalendo velocemente fino ad oggi, alcuni esempi di continuità di scultura di linea in cui immagine e struttura coincidono, possono trovarsi in Italia negli sviluppi rettilinei elementari di Valdi Spagnulo o in quelli fluidi di Eduard Habicher.
Nel dopoguerra vanno intensificandosi ancora nuove modalità che reinventano ulteriormente la scultura rompendo il rigore formale di tradizione purovisibilista, e spostando ulteriormente l’asticella in avanti verso nuove possibilità espressive. È questo il caso di tutta quella scultura esistenziale che ha origine con l’Informale e che trova nell’assemblaggio, in genere del rifiuto di lavorazione, l’elemento dirimente declinato da scultori come: David Smith, Mark di Suvero ed altri artisti celebrati in una tempestiva mostra al Moma di New York nel 1962 dal titolo The art of Assemblage. In Italia gli artisti riconducibili a questa tendenza sono: Ettore Colla, ancora Edgardo Mannucci, Nino Franchina, Franco Garelli, Pietro Consagra e tanti altri che hanno rinnovato la grammatica espressiva e gli strumenti operativi del fare scultura, passando dalla fusione metallica alla saldatura. Tra questi si possono rintracciare anche i Ferri di Alberto Burri, annoverati come sculture già nel 1964, in un’importante mostra alla Galleria Civica di Torino. In una modalità di assemblaggio costruttivo, seppure con finalità maggiormente concentrate in una narrazione figurale evocativa, sono riconducibili anche alcune sculture di Pino Pascali derivanti dal ciclo delle Armi (1965 circa), contemporaneamente l’italo-francese Berto Lardera, procede in una costruzione metallica di sagome astratte pur evocando marginalità figurali, quasi ombre. La ripresa di una ricerca verso la scultura di assemblaggio, dominante fino alla fine degli anni sessanta, è stata riportata in auge recentemente dalle opere di Carol Bove, esposte alla Biennale di Venezia del 2019. In alcuni casi anche le sculture metalliche degli anni settanta di Amilcare Rambelli, rientrano in una dimensione di costruzione anche se l’elemento organico è preminente nell’artista milanese, unito alla componente meccanica che rende le sue sculture un ibrido, in cui si consuma l’eterno confronto tra natura e macchina. Un tema, quest’ultimo, che già affascinò i Futuristi e che riaffiora nella scultura contemporanea del nuovo secolo nelle meccaniche di Arcangelo Sassolino, ma anche nelle installazioni dei cinesi Sun Yuan e Peng Yu presenti anche loro all’ultima Biennale veneziana.
Ci sono ancora altre due tendenze funzionali al nostro discorso: la prima è quella organicista, in cui spicca il nome di Henry Moore e tra gli altri quelli di Labo, Olga Jeveric, Quinto Ghermandi, Alberto Viani e il già citato Rambelli. Mentre l’ultima è quella del minimalismo modulare che trova in Brancusi un prodromo, per poi fiorire dalla seconda metà degli anni sessanta, contrapponendosi alla materia calda informale, con elementi modulari freddi, in cui la scultura si espande nello spazio, secondo la lettura di Rosalind Krauss, e che trova i suoi protagonisti negli americani Donald Judd, Robert Morris, Carl Andre, Sol Lewitt, mentre in Italia questa tendenza è riconducibile essenzialmente ad un anticipatore come Francesco Lo Savio e, dalla fine degli anni sessanta, mi piace ricordare una scultrice poco nota come Nedda Guidi. L’idea di modularità seriale, in una prospettiva formale organica, è forse la tendenza che meglio descrive parte delle ultime tendenze della scultura contemporanea. Un esempio efficace in questo senso è riscontrabile nelle opere di Tara Donovan, che realizza sculture attraverso oggetti seriali d’uso comune, assemblati insieme, generando forme nebulose organiche.
Questa parziale e libera panoramica storica, di sviluppo scultoreo giocato anche tra le polarità di artificio e natura, si è resa dunque necessaria per individuare alcuni dei filoni entro i quali la ricerca ultima di Loris Cecchini sembra inserirsi, sintetizzando i processi e offrendo il proprio contributo per rinnovare i consolidati schemi del linguaggio scultoreo. Egli assorbe dalla lezione del novecento alcuni caratteri: la linearità, che diviene curva e frammentata come somma di moduli; l’assemblaggio come modalità di costruzione; il modulo come unità elementare della scultura e l’organicità come struttura formale compiuta.
L’artista, dopo aver scarnificato, disossato e reso fluida, l’oggettualità del vivere quotidiano, nelle opere degli anni novanta, recupera con i primi moduli del 2009 e poi con i Waterbones nel 2014, una dimensione strutturale in cui artificio e natura non sono più su un piano alternativo o di contrasto, ma instaurano un rapporto cooperativo dialogante. «Questo tipo di lavoro si espande e contrae in qualsiasi tipo di spazio, diventando una sorta di instant sculpture, come le modalità delle piante, degli organismi e allo stesso tempo di infiniti calcoli». Non poteva essere più chiaro Cecchini, nel fornire le direttrici di una ricerca che trova nella natura una prima fonte d’ispirazione, e nella scienza lo strumento attraverso cui declinare un proprio linguaggio estetico. I Waterbones si inseriscono concettualmente sul filone di una scultura aperta, modificabile, che assume i connotati di un’opera in espansione, lo stesso autori ricorda come: «La scultura intesa come diagramma aperto mi dà la possibilità di lavorare sull’espansione e la contrazione di una forma nello spazio». Analogie, non solo nominalmente ma anche esteticamente, emergono con l’opera di Claire Falkenstein, Strutture in espansione del 1959, in cui ramificazioni reticolari si diramano in libertà nello spazio, elaborando elementi organici.
Dal punto di vista della lettura critica si pone però il problema della definizione, in quanto non si può leggere la scultura di Cecchini solo come sintesi di linguaggi e di esperienze precedenti, sarebbe infatti anacronistico oltre che ingeneroso.
Di certo la sua opera più recente risulta un punto di confluenza entro cui esperienze passate trovano riverbero, oltre che essere perfettamente in linea con i caratteri generale di arte espressi negli ultimi decenni. In particolare, egli sposa un linguaggio adattabile ai contesti e opportuno ad ogni luogo. Tuttavia, la caratteristica più evidente della sua opera, ed in particolare delle modularità dei Waterbones, è la perdita di un centro focale. Egli dissemina di più nodi la scultura, ognuno centrale ad una sezione dell’opera, che diviene simultanea in più punti. Su questo principio apparentemente ottico, si basa in realtà l’autentica novità della sua ricerca che risiede nella visualizzazione plastica di un sistema scultoreo. Credo sia questa la definizione più efficace per circoscrivere la natura di questa ricerca. Non si può infatti più parlare di singola opera dai solidi confini o di semplice installazione ambientale o ancora costruzione modulare. Questi criteri male si sposano ad un insieme di elementi autonomi, ma connessi in un tutto organico che definisce la base dei sistemi. Waterbones è composto da agglomerati mutevoli, elementi costruibili in forme fluide attraverso unità modulari che si autosostengono l’una all’altra, senza bisogno di basi o di ancoraggi. È la scultura concepita come sistema, perfettamente autonoma, in cui i confini materiali non sono più definibili, ma labili e in continua evoluzione; dove anche l’incertezza, la titubanza del singolo elemento non è più percepibile in quanto assorbita dal tutto. Una scultura ambigua, non immediatamente decifrabile, in cui l’osservatore è legittimato a porsi il dubbio se essere d’innanzi a una rappresentazione puntuale di un microcosmo cellulare, o davanti alla metafora simbolica di un macrocosmo universale. Rappresentazione e simbolo, in genere elementi antitetici qui si fondano. Non è un caso che approcciandosi a questo tipo di scultura, molti studiosi evocano come riferimenti formali i tessuti cellulari, le reti neurali o piuttosto sciami d’api, formicai ed altro ancora oscillando con disinvoltura dal micro, al macro, dal simbolo alla rappresentazione. È in questo dubbio che si riverbera la generalità di quella che intrinsecamente è la logica dell’opera, e che ricalca la legge dei sistemi complessi, in cui l’unità, nella libertà di posizionamento nello spazio, sottostà ad un ordine formale che è determinato dall’energia complessiva dell’insieme.
In Waterbones, infatti, pur avendo più punti focali, non è mai un dettaglio a dominare la scena, quanto l’articolazione dell’insieme nello spazio, come nelle forme mutevoli degli stormi di uccelli in volo o nell’organizzazione dei vetri di spin, come ha dimostrato recentemente Giorgio Parisi.
Su questa concezione cade anche la tradizionale lettura critica dell’opera d’arte secondo criteri di equilibrio, forma, proporzione e simmetria; stravolti completamente da un sistema di elementi caotici, labirintici spesso montati in posizioni casuali e che trovano, in verità, una loro ragione nel sistema che lo regola. A tutto questo Cecchini aggiunge un concetto astratto, ma tipico dell’arte: l’armonia. Lo si coglie da una sua frase di poetica: «La scultura nel suo manifestarsi, deve avere, al di là della funzione meccanica che la determina, un carattere musicale, l’eleganza di una pianta, la leggerezza di un’idea», è questo l’ultimo tocco della ricetta artistica di Loris Cecchini. Un artista che rende tangibile ciò che solo la mente riesce a visualizzare.